Il teatro Valle: la fine di una trasformazione sociale? INTERVISTA a Tiziano Panici, fondatore del festival romano “Dominio pubblico”
Il teatro francese, da circa 50 anni, è animato dall’attività drammaturgica di una compagnia che è stata capace non soltanto di innovare le tecniche teatrali, ma soprattutto di farsi carico di problematiche di forte impatto sociale: Le Théâtre du Soleil. Credi che il contesto sociale e politico italiano contemporaneo possa essere terreno fertile per sperimentazioni artistiche alla stregua di quelle proposte dal Soleil? Il Teatro Valle è stata una di queste?
Rispondo alla domanda facendo una piccola introduzione. E’ necessario tenere presente che, seppur non si possa parlare ancora di post-crisi, viviamo una stagione diversa da quella del 2012. E’ sempre difficile infatti, capire quando si è in mezzo ad una rivoluzione cosa si sta vivendo. In questo momento il nostro Paese e non solo, perché parliamo di cambiamenti politici e sociali che interessano tutto il contesto globale, vive una fase di evoluzione e cambiamento dal punto di vista soprattutto sociologico: sono cambiati i modi di comunicare, è cambiata la maniera in cui si sta insieme, cambiano continuamente gli approcci antropologici. E’ interessante in questa prospettiva, tracciare una storia del rapporto della società con il teatro che di fatto è uno specchio societario. Edward Bond dice: “benedetta la città che fonda un teatro”. Questo è stato chiaramente, il principio che ha mosso, all’epoca del Soleil, un atto rivoluzionario da parte di una compagnia diretta da una grandissima artista e, a mio avviso, anche una grandissima politica, Ariane Mnouchkine.
Quell’esperienza può essere recepita e riproposta in Italia? Bisogna premettere che ogni esperienza teatrale è unica, può essere imitata, ma non può essere riprodotta allo stesso modo, perché perderebbe il suo senso iniziale. La motivazione di questo sta nel fatto che ogni esperienza teatrale si sviluppa all’interno di un tessuto sociale particolare, in un contesto storico ben preciso. A ciò va aggiunta una considerazione fondamentale: ciò che ha permesso alla Cartoucherie di acquisire il ruolo che ricopre attualmente è l’intervento statale. Lo stato francese infatti, ha riconosciuto, dopo un anno di occupazione dell’ex-fabbrica, il valore di quell’iniziativa e ha lasciato alla compagnia la possibilità di portarla avanti inizialmente senza cospicue risorse statali. La stessa cosa è avvenuta alla “Friche la belle de mai” di Marsiglia” a cui collaborano più di 60 associazioni.
In Italia questo tipo di esperienze sono storicamente e sociologicamente molto diverse. Roma è stata per anni una delle città più occupate del mondo. Ci sono occupazioni in questa città infatti, precedenti a quella del “Teatro Valle”. Alcune sono andate avanti per 20 anni: pensiamo al forte prenestino, lotte per la casa. Sono movimenti questi, veramente “storicizzati”. Questa storicizzazione ha anche dei risvolti negativi poiché ha portato con sé situazioni giuridicamente mai pienamente risolte. Vivere in uno stato d’assedio perenne non è possibile quindi, questo doveva ad un certo punto, inevitabilmente, subire una rottura e un cambio. Questa sorta di conflittualità latente tra stato e anti-stato, perpetratasi così tanto a lungo, è entrata in crisi, come dicevo prima, nel 2012. In questa situazione sono nate alcune importanti iniziative “dal basso”, come l’occupazione del Valle e quella del cinema America. Sono delle occupazioni 2.0, alle stregua di veri e propri movimenti sociali. C’è anche l’esperienza del cinema Palazzo nel quartiere di San Lorenzo a Roma, ma questa sembra essere una sperimentazione che ripropone un po’ schemi del passato. Il Valle invece, ha vissuto con una doppia anima perché è stata un’esperienza prodotta da artisti oltre che, come dicevo prima, da movimenti storici romani. E’ stata influenzata anche dall’esperienza della Mnouchkine, tanto che Le Théâtre du Soleil ne ha riconosciuto la grandezza. Il teatro Valle tuttavia, a differenza di quello della Mnouchkine, non ha avuto la stessa fortuna, seppur si presentava come un’esperienza che avrebbe potuto realmente portare dei grandi cambiamenti dal punto di vista sociale e avrebbe potuto far emergere un’indipendenza culturale dal “basso” che non ha resistito al tempo e alle inefficienze statali.
Il Teatro Valle occupato quindi, nasce come un esperimento teatrale la cui intenzione era soprattutto quella di rispondere, con gli strumenti del teatro, ai cambiamenti sociali e politici. Come hanno reagito le istituzioni?
Dopo tre anni di occupazione c’è stato un momento di grande stanchezza e c’è stata anche, una promessa da parte delle istituzioni che si impegnavano, riconoscendo il grande lavoro degli attori del valle, a restituire il teatro alla città. Questo tuttavia non è avvenuto. Siamo ora davanti al foyer del Teatro Valle: ad oggi, rimane solo una stanza di piccole dimensioni al cui interno c’è una parete murata che conduceva, attraversato il foyer, all’interno della struttura. C’è una promessa ancora una volta, tradita. Ricordo ciò che ho detto prima: dopo un anno di occupazione le istituzioni francesi hanno riconosciuto l’azione della Mnouchkine e dei suoi attori. Qui in Italia e soprattutto a Roma, questo non potrebbe mai accadere: sono diversi i contesti sociali e politici, è diversa la percezione istituzionale. Un’esperienza come quella del Teatro Valle è logorante: è logorante perché è faticoso condurre un’azione politica di questo tipo senza aver alcun appoggio statale. Se ad un certo punto infatti, si continua ad essere abbandonati a sé stessi è chiaro che il senso di quell’esperimento rischia di venir meno e finisce poi per spegnersi . Questo è successo al Valle: una possibilità di cambiamento politico, sociale, teatrale rimasta incompiuta.
Questo significa che l’Italia non è ancora pronta per queste iniziative? Come può il teatro essere ancora strumento di sperimentazione socio-politica e ricostruire un tessuto sociale altamente minato dalla crisi identitaria europea, oltre che da quella culturale?
Io penso che sia in atto qualcos’altro. La spinta all’investimento pubblico, non in Italia ma in Europa, che punta a ricostruire un’identità culturale di un continente, è un primo passo verso la ricerca di un futuro diverso. La prima azione che l’Europa ha finanziato al teatro è stata quella definita “audience development”. L’Europa in questo senso, si è dimostrata molto aperta a riconoscere la situazione di crisi e la necessità di fare qualcosa per ricostruire e ricreare, dal principio in alcune occasioni, il pubblico. Sono nati, su questa scia, vari esperimenti. Emblematico è il “festival Kilowatt” di San Sepolcro(AR), festival diretto da Luca Ricci che è anche ideatore e co-fondatore insieme a me, del progetto “Dominio pubblico”. Attualmente il festival “Dominio pubblico” ha vinto uno dei progetti della comunità europea proprio sul tema dell’ “audience development”. Come vogliamo rivalutare il rapporto con il pubblico? Attraverso la “direzione artistica partecipata”. Questo permette di ricostruire un legame con il tessuto sociale all’interno di un contenitore culturale che è il teatro. Il teatro quindi, ha la possibilità di riconquistare il pubblico rimettendolo al centro della sua azione. Alla direzione artistica del festival Kilowatt infatti, ha collaborato un gruppo di abitanti che Luca Ricci ogni anno ha messo insieme e selezionato. Su Roma invece, abbiamo fatto un passo ulteriore. Nel momento in cui il Valle era occupato e il Teatro India era chiuso, insieme al Teatro dell’Orologio, abbiamo formato una sorta di intesa facendo una programmazione in comune: due teatri hanno iniziato a programmare insieme. In questa condivisione di direzione artistica abbiamo introdotto anche Luca Ricci, diventando per questo, una direzione artistica tripartita. L’intento era quello di dare spazio e visibilità ad artisti che a Roma non venivano accolti.
Parlavi di questo progetto che hai portato avanti insieme al Teatro dell’orologio e a Luca Ricci in una collaborazione tripartita. Di cosa si tratta? Quale vuole essere il vostro fine teatral-sociologico?
Due spazi romani si sono messi insieme per creare un modello unico d’impresa culturale che ha deciso di fare da volano, attraverso un progetto di formazione del pubblico. Il target è under 25. Ogni anno apriamo una call pubblica a cui partecipano liberamente 40/50 ragazzi. Quest’anno siamo arrivati alla 4° edizione, un esperimento fresco che in pochi anni è diventato molto visibile a Roma, grazie anche al “Teatro di Roma” che lo ha accolto. Da lì, abbiamo avviato un processo di net-working che ci ha messo in contatto con tantissime realtà. A mio avviso, questo è uno dei modi attraverso cui il teatro può declinarsi nel sociale e soprattutto diventare visibile. Ora quindi, siamo al punto di creare un network nazionale con altre realtà in Italia che hanno progetti analoghi. Ci sono tanti altri progetti in Italia che vogliono ripensare al teatro come ad un mezzo di coesione sociale e che sono intenzionati a portare avanti un’operazione di “audience development”, come il Teatro sociale di Gualtieri che è un esperienza di teatro politico partecipato, nata in parallelo al Valle. A Bologna c’é il Festival 20 30 diretto dal gruppo Kepler-452 e da Avanguardie 20 30, nato anche grazie al supporto di un gruppo musicale “Lo stato sociale”, la band che ha trasformato radicalmente il mondo dell’indie rock italiano. La stessa tendenza socializzante si ritrova nell’esperienza del Cinema Teatro Metropolis, gestito da Arci Reggio Emilia, nel “Festival trasparenze” di Modena. Ci sono in questo momento tantissime realtà intenzionate a proporre un modo nuovo di fare teatro, capace sia di coinvolgere direttamente lo spettatore sia di fare del teatro un luogo di sperimentazione politica e sociale.
In quest’ottica di “audience development” quanto è importante puntare sulle scuole? Una cultura di avvicinamento al mondo teatrale che parta già dal mondo della scuola credi che possa contribuire con più velocità a creare una nuova coscienza collettiva, capace di vedere nel teatro un’ agorà politica e sociale? Alla luce del tuo percorso di studi all’estero prima e in Italia poi, in cosa pensi che il sistema formativo italiano sia monco? Possiamo parlare di un’atrofia della formazione?
Rispondo facendo un riferimento al Teatro delle Albe e al progetto no-scuola di Martinelli. Credo che questa esperienza sia quella che ha contribuito di più alla nascita nelle scuole, di un percorso di avvicinamento al mondo del teatro. Più che progetto infra-scolastico, questo è un progetto che opera con gli adolescenti, ma al di fuori del mondo scuola. Opera con i giovanissimi affinché in loro nasca una responsabilità politica di cittadinanza attiva attraverso la formazione e la cultura. Esistono quindi, tantissime realtà che hanno questa forza e questa progettualità a livello embrionale e in questo momento stanno iniziando a dialogare tra loro, stanno iniziando a crescere e a scambiarsi i pubblici. Credo che questo sarà il futuro del teatro e l’evoluzione della partecipazione sociale in Italia. Le realtà sono tante, ma rimangono a volte relegate al piccolo. Il problema quindi, non è l’arretratezza del teatro che invece sta sempre un passo avanti, ma l’arretratezza politica e statale e la poca attenzione che si da alla formazione e al rendere in qualche modo scientifici, documentabili e tangibili determinati dati.
Ci sarà sempre un pioniere che si stacca, che esce da una situazione istituzionale e formativa per cercare qualcosa altrove. Barba fece questo: scappò dall’Italia perché non riusciva a trovare il suo percorso all’interno delle accademie istituzionali e formò l’Odin Teatret . Fu lui a riportare la sua ricerca all’interno del nostro sistema universitario, in una maniera talmente preponderante che attualmente, alla luce della mia esperienza di studio nella facoltà di arte e scienze dello spettacolo della Sapienza, si ha solo Barba davanti. Le università italiane sembrano fornire esclusivamente strumenti teorici, ma non riescono a proporre quel modello necessario a creare una coscienza critica solida e attiva. Non offrono una reale possibilità di crescita, non offrono un confronto concreto. In questa disomogeneità teoria-pratica c’è una mancanza totale di disinteresse da parte dello Stato che non punta sulle istituzioni della formazione. Dalle scuole elementari, alle medie, ai licei questo paese è stato totalmente destrutturato. Il perché i giovani abbandonano il nostro Paese alla ricerca di nuovi strumenti di formazione è abbastanza ovvio: la maggior parte dei giovani oggi, cerca risposte altrove, cerca risposte nella vita, nelle esperienze. Sarà importante in un futuro, mi auguro non tanto prossimo, riportare tutta questa ricerca all’ interno di uno schema formativo, ma ci vuole una politica che lo consenta. Questo è quello che la Francia ha sempre avuto, anche da qui vengono le esperienze di cui abbiamo parlato prima, perché è un paese che ha una coscienza di Stato, che punta sulla formazione. Le università italiane invece, fanno fatica nella produzione scientifica, nella ricerca. Si rischia quindi, di camminare su un terreno fertile, ma nello stesso tempo incapace di creare innovazione, di vivere il contemporaneo, di creare crescita scientifica e pratica allo stesso tempo. Barba, la Mnouchkine sono dei maestri su cui non bisogna fossilizzarsi. Devono essere fonte di ispirazione, ma non sono le risposte al nostro contemporaneo, si rischierebbe di scivolare nell’apatia.
Non penso quindi, che serva un’esperienza come quella della Cartoucherie, ma penso che spetti a noi creare “la nostra esperienza”. E’ nella presa di coscienza che è necessario un cambiamento. Una coscienza politica e sociale capace di svilupparsi in maniera autonoma, deve avere delle forti ispirazioni, come quella della Mnouchkine, ma non si deve costruire nel timore o nell’imbarazzo di non poter essere all’altezza di quello che è stato fatto nel passato, perché è questa paura che ci sta uccidendo: un soffocamento che ci impedisce di crescere. Mnouchkine , Barba, Grotowski vanno accolti, ma con la finalità successiva del distanziamento. Solo così possiamo creare la nostra rivoluzione, il nostro modo di pensare, il nostro modo di ricostruire un tessuto sociale che non appartiene più a quello che è stato 50 anni fa, 30 anni fa. Bisogna quindi, saper conservare la memoria, saperla onorare, ma non ci si può far ammassare da quella memoria. Questo è purtroppo ciò che succede nelle nostre Università.
Tiziano Panici, fondatore del festival romano “Dominio pubblico”