Incontro con Lisa Ginzburg: “Lunga vita ai libri”!
___ di Mariangela Rosato
Sono le 16 di un sabato pomeriggio quasi primaverile. Parigi ha una temperatura mite e mi dà l’impressione di essere più accogliente del solito: la gente ne ha approfittato per fare una passeggiata e anche io non posso fare altrimenti. Prendo l’ombrello perché la pioggia è pronta a colpire in ogni momento, mi voglio avviare verso Montmartre senza un piano già premeditato e con la sola voglia di perdermi. Prima di uscire do uno sguardo veloce al mio cellulare: aspetto un’ e-mail importante da questa mattina, ma la mia casella di posta è ancora vuota.
Accendo e spengo internet persino più volte nel caso in cui ci sia un problema di connessione: nessuno si è ancora fatto vivo. Un “bip” cattura la mia attenzione prima che metta il cellulare nella borsa. Si tratta ancora di una notifica di Facebook e ripenso che, forse, farei meglio a cancellarmi da questo social network una volta per tutte: troppe foto e post inutili, troppe persone che ho tra gli amici di cui conosco poco e niente, troppe informazioni a raffica che incidono negativamente sul mio stato d’animo.
Solo l’ultima volta e poi spengo il cellulare- mi dico. Il “bip” viene da un messaggio pubblicato sul gruppo di “Italiane a Parigi”, parla di un prossimo trasloco- l’ennesimo penso tra me e me- chiede di qualcuno interessato ad acquistare un mobile in buone condizioni e ciò che propone sembra essere piuttosto interessante. E’ da tanto tempo che mi frulla per la testa l’idea di fare qualche cambiamento: svecchiare un po’ il mobilio di queste stanze, dare loro una ventata di aria fresca ed inaugurare la nuova stagione. Quale migliore occasione per iniziare?
“Lisa Ginzburg”, chiedo informazioni e, dopo qualche messaggio e uno scambio di email per ricevere le foto, mi rendo conto che il nome della mia interlocutrice mi è più che noto. Ho visto molti dei suoi libri sugli scaffali di varie librerie a Roma, così come della Libreria a Parigi che frequento, e non posso che meravigliarmi della coincidenza così tanto inaspettata. Le chiedo se è disponibile per un’intervista, aspetto con ansia la risposta che si rivela positiva ed inizio a preparare le domande dell’incontro che si farà, finalmente dopo tanto tempo, dal vivo. Luogo prescelto: il Canal Saint Martin, tra una settimana alle 17:00!
Ho tutto nella mia borsa: registratore, quaderno con gli appunti, matita, il libro “Cara Pace” con la copertina dove si indica che è stato selezionato tra i dodici libri candidati al premio Strega di quest’anno, controllo persino se ho l’ombrello, dato che la pioggia a Parigi è sempre in agguato. Per evitare di fare tardi lascio casa anche prima del previsto. Prendo la metro come al solito, mi siedo e aspetto di arrivare alla fermata République da cui sarà facile dirigermi verso il Canale.
La porta del treno si apre à Barbès-Rochechouart, stazione nota per la multietnicità e l’incontro di colori, e intanto una cappa di fumo grigio e così fastidioso per gli occhi che li fa lacrimare entra nella cabina. Tutti che urlano “entrez, entrez”, i fazzoletti sulla fronte, lo sguardo spaventato che per attrazione rende impaurito anche il mio, i colpi di tosse che si susseguono uno dietro l’altro. Neanche io riesco a resistere: il fumo è troppo forte, l’odore è troppo nauseabondo, la gola non ce la fa e tossisce.
La signora seduta accanto a me mi consiglia di aspettare qualche fermata prima di scendere. Fuori la manifestazione si sta muovendo, i poliziotti buttano lacrimogeni e l’atmosfera si sta facendo tesa. Forse è la prima volta, dopo tre anni che sono a Parigi, che qualcuno mi rivolge la parola nella metro dove l’unico scambio che ho avuto è quello di sopracciglia crucciate, stanche e a tratti superbe. Sarà che il disagio tende a creare più empatia? Ringrazio Madame di cui riesco a vedere solo gli occhi perché il resto è nascosto sotto la mascherina verde sbiadito ed esco dalla cabina della metro consapevole che, se avessi incontrato la stessa signora fuori anche solo un minuto dopo, non l’avrei riconosciuta e lei mi avrebbe guardato con le stesse sopracciglia crucciate.
Fuori la metro è un caos: la gente corre, sbraita slogan pro-Palestina, i poliziotti lanciano gas lacrimogeni, tutti corrono a ripararsi e io faccio altrettanto con la strana sensazione di trovarmi nel bel mezzo di una guerriglia e con la consapevolezza che non riuscirò mai ad arrivare in tempo all’appuntamento delle 17:00. Mi muovo in tutte le direzioni, svolto prima a destra poi a sinistra, neanche il mio telefono può aiutarmi visto che le strade si bloccano in tempo reale e la RATP (compagnia di trasporti parigina) non sembra dare nessun aggiornamento a tal proposito. A darmi una mano è la signora che si è riparata vicino a me: alta, i capelli marroni, un cappotto lungo nero, che mi indica come muovermi e quale strada poter prendere per deviare la manifestazione. Anche questa volta, così come nella metro, l’aiuto mi viene dall’esterno e non dal telefono. Sarà che nelle situazioni critiche si riesce a creare più empatia?
-C’è un caos indescrivibile oggi!
-Sì, non è sicuramente il giorno migliore per uscire. Diluvia e in più la manifestazione non sembra essere tanto tranquilla!
-No, direi proprio di no purtroppo, ma devo dire che mi ha fatto scoprire un lato un po’ meno rude del parigino, sicuramente più cordiale e aperto del solito.
-Io ho un rapporto molto particolare con Parigi. Mi sono trasferita quando avevo 43 anni per lavorare in un organismo internazionale. Espatriare a quell’età è un po’ tardi e, proprio come ho scritto in “Cara Pace”, il mio ultimo romanzo edito dalla casa editrice “Ponte delle grazie”, “la radice non ha attecchito”. Nella lunga durata ho sentito che fosse un po’ una perdita di tempo anche in termini interiori perché provavo un senso di alienazione che, a volte, mi faceva sentire di essere in due posti allo stesso tempo.
-Un’alienazione che, mi sembra, vada di pari passo con il tema del dubbio. Tutti gli espatriati di qualsiasi nazionalità tendono a vivere il conflitto tra: il dubbio che ti fa chiedere se è giusto rimanere e il dubbio che ti fa chiedere se è giusto tornare indietro.
-Su questo tema ho scritto un libro che si chiama “Buongiorno Mezzanotte torno a casa” che parla proprio dello stato di esitazione continua che, nella lunga durata, diventa una forma di esistenza capace di contemplare il se, l’ipotesi, l’alternativa. Questo ha qualcosa di un po’ nevrotico che finisce per diventare una condizione. Per tale motivo è importante, secondo me, cercare di riconciliarsi con sé stesso anche se questo significa fare i conti con il sentimento della nostalgia. Una nostalgia che può risvegliarsi nei momenti più inaspettati. Della Francia, per esempio, mi mancherà il verde francese, gli alberi rigogliosi e bellissimi. Ciò che, invece, non rimpiangerò è sicuramente l’asprezza per la strada, i rapporti graffianti, il fatto che spesso a Parigi si respira molta precarietà.
-Certamente il Covid ha alterato questa situazione di ambivalenza e di bivio.
-In me soprattutto! La pandemia ha giocato un ruolo importante nella scelta di ritornare a Roma. L’Italia sembra essere più lontana, viaggiare è più difficile e, nel breve termine, questo avrà un effetto molto localizzante. Allo stesso tempo, devo dire che eravamo arrivati ad un punto di frenesia incessante in cui tutto era veloce, fuggitivo, dopato ed era inevitabile che la situazione esplodesse. Anche Parigi, nonostante lo charme che può suscitare, è molto in crisi a causa di quest’evento. Ha mostrato un lato che non si vedeva prima, ossia il fatto che possa essere molto noiosa nel momento in cui le togli tutte le attrattive culturali. Non so quanto tempo ci possa mettere per recuperare l’immagine di un tempo, la vedo molto impoverita, molto più di altre capitali europee come Berlino ad esempio.
-E cosa ti è mancato di più dell’Italia in questi anni?
-In “Buongiorno Mezzanotte torno a casa” lo racconto: quando ci si trova all’estero si vive come in uno stato di tensione in cui bisogna essere sempre un po’ guerriero proprio perché, quando si esce da casa, la realtà è qualcosa di più aggressivo e di estraneo che ti fa mettere una sorta di corazza. Trovo più rilassante stare nei luoghi propri, con dei codici propri che, anche se non possono piacere, sono pur sempre conosciuti.
-Immagino che vivere all’estero abbia contribuito anche a definire maggiormente il tuo stile di scrittura.
-Certamente! Soprattutto perché nella mia famiglia ci sono già delle figure legate al mondo culturale e letterario italiano. Questo da una parte mi ha permesso di vivere in un contesto pieno di stimoli, dall’altra mi ha posto di fronte alla difficoltà del confronto. Sapevo che sarei riuscita a costruire una mia realtà, ma è stato molto faticoso: mi sentivo oppressa soprattutto dall’idea di dover trovare una voce che fosse mia. Ora sono riuscita a fare pace con molte cose e a definire ciò che doveva essere definito, ma sicuramente non è stato semplice. Tra l’altro, io ho una formazione filosofica: studiavo la filosofia cartesiana ed, arrivata ad un certo punto, ho sentito la necessità di fare un detour e di andare incontro a qualcosa di più conforme. E’ stata una crisi che mi ha permesso di fare il salto necessario. Non tutti hanno la fortuna di trovare subito quello che amano davvero, ma sono dell’idea che bisogna accettare questi detours. Sono molto contenta, infatti, della mia traiettoria anche se è stato tutto molto impegnativo.
-Il nostro vissuto familiare tende sempre ad influenzare le scelte in un modo o nell’altro. E’ un po’ quello che succede anche a Maddalena e Nina, le protagoniste del tuo ultimo romanzo.
-Penso che spesso, e con una maggiore intensità quando si emigra, siamo molto condizionati dalla nostra famiglia, molto più di quanto riconosciamo consapevolmente. Nella nostra personalità giocano molte dinamiche che abbiamo dovuto vivere da bambini. Per tale motivo, un po’ com’è successo a me con la mia eredità familiare, una certa parte della giovinezza si consuma nel tentativo di capire come e cosa si é veramente.
-Questo Covid sembra aver scombussolato, da un certo punto di vista, anche le dinamiche editoriali, le tendenze letterarie, il ruolo delle librerie.
-Sì, penso la stessa cosa. La pandemia cambierà un po’ i criteri: avremo bisogno di una letteratura molto più immaginativa e, forse, usciremo da quella che si chiama “letteratura ombelicale”. Rispetto alle librerie, invece, spero che possano riuscire a riprendersi e che il libro cartaceo possa continuare ad esistere. Sfogliare dei libri è bellissimo e nessun tablet potrà mai sostituire l’emozione della carta. Lunga vita ai libri!
Fuori continua ad essere un enorme caos: i poliziotti gettano lacrimogeni, le rues sono intasate, le stazioni della metro sono chiuse. Ad aiutarmi a trovare la strada è sempre qualche passante che mi indica come raggiungere l’unica fermata metro disponibile. Sul viso ha la solita mascherina verde che copre tutti i lineamenti e lascia scoperti solo gli occhi. Il disagio si conferma essere la chiave dell’aiuto reciproco, l’unica condizione capace di generare empatia nei confronti della mia mancanza di connessione wifi, l’unico modo in cui riesco a tornare a casa nonostante la pioggia battente che scende su Parigi con la stessa forza della manifestazione. Le ultime frasi dell’incontro, però, continuano a risuonarmi nella mente e non posso far altro che accogliere anche io lo stesso motto: “lunga vita ai libri”!
Molto interessante!